Kompagni e Kompagne, vorrei presentare un emendamento.
Cazzo, candidiamo anche il baratro della politica e l'abisso della storia.
Giacomo Bonfiglio le stazioni le conosceva tutte. La sua preferita era San Nicola – Tonnara: due binari arrugginiti sulla Palermo-Messina, una pensilina color zafferano adornata da qualche pala di fico d'india, il solito sottopassaggio, ma largo la metà, l'abside malamente intonacata della chiesa e due altoparlanti gracchianti, che a sentire lui li aveva messi lì Garibaldi e venivano nientemeno che dalla Leopolda di Firenze, quando l'avevano dismessa.
A San Nicola – Tonnara non c'era neppure la campanella che avvertiva dell'arrivo del treno, e i passeggeri scendevano su uno sterrato, scavalcavano il binario e s'imbucavano nel sottopasso per uscire. Ma per lui era l'apoteosi.
Innanzi tutto, il nome. Il nome era una cosa grandiosa. San Nicola fa forse ottocento anime – ma residenti, ché presenti manco la metà –, frazione di Trabia. Il nome completo è San Nicola l'Arena. No, arene romane nessuna. Assai assai se c'era, in cima a un dirupo, una torre normanna mezza diroccata, che prendeva il nome dall'albergo fuori paese. “Affioramenti ipogei”, li chiamavano ai beni culturali. Per i non addetti, quattro balatoni di tufo impiccicati con la sputazza. Per i locali, schietti ma solo mediante doppia figura retorica, “il Settebbello”. Ma siccome lì c'è la tonnara, allora San Nicola – Tonnara. Come Torino – Lingotto, ma senza Torino Porta Nuova.
E poi, la cornice. Marittima. Ma senza il mare, si capisce. A San Nicola la stazione stava sul retro, defilata. C'era la chiesa, la statale, il banchi del pesce, il campo di calcetto (“lo stadio”), quattro case rosa invecchiato con più gerani alle finestre che cristiani dentro, la straduzza, la battigia e poi, forse, anche il mare.
Ci si era fermato per la prima volta nel duemilaquattro, per affiggere l'orario estivo. Verso Palermo, un treno ogni ventitreesimo minuto delle ore pari. Verso Termini Imerese, un treno ogni primo minuto delle ore dispari. Le rette parallele che delimitavano l'universo ferroviario di San Nicola s'incontravano lì, in questi due estremi longitudinali. A Sud, nespoli interrotti da canne e oleandri, a Nord il Tirreno, invisibile e geograficamente avaro di tramonti sul mare.
Per lui era la sintesi del pubblico in Sicilia: in secondo piano, sgarrupato e utile solo a ore alterne. Un posto per gente che della pazienza ha fatto croce e virtù. A San Nicola-T. non c'era un ingresso, non c'era la biglietteria e manco lo schermo. C'erano solo il foglio giallo delle partenze e una macchinetta automatica un po' scassata, per turisti ostinati. In effetti, era una stazione vecchia. Giacomo Bonfiglio aveva un criterio tutto suo per distinguere il vecchio dall'antico: il secondo piano. Tutte le stazioni antiche hanno questo luogo un po' insensato che è il secondo piano. Che a giudicare da certi atrii sembra solo un elemento della facciata, ma poi capisci che ci sono delle stanze, e non puoi fare a meno di chiederti che ci sia dentro, cosa succede al secondo piano di una stazione?
A San Nicola-T. questo problema non si poneva. Il vero mistero era un altro. Bonfiglio ci ebbe a che fare un anno dopo, quando fu mandato lì a sistemare gli altoparlanti. Nel frattempo infatti si erano accorti della sua laurea e l'avevano promosso da manutentore ordinario a tecnico degli impianti acustici. E lui, modestamente, gli altoparlanti li faceva cantare. Ma quelli di San Nicola-T. no, perché non si riusciva a trovare dov'era la centralina per programmarli. Un bel giorno la voce meccanica che annunciava il treno regionale proveniente da Palermo e diretto a Termini Imerese in partenza dal binario due era scomparsa. Per fortuna era scomparsa anche la fermata a tràbia, che non si poteva sentire da quant'era stonata rispetto all'ovvia Trabìa – che si scrive con una sola b ma si pronuncia con due.
I cavi finivano nel cemento asfaltato del marciapiede e non c'era progetto che dicesse dove proseguivano. Quello che ci aveva messo mano l'ultima volta si era portato il segreto nella tomba e nessuno, ovviamente, ricordava dov'è che avesse lavorato. Era una bella gatta da pelare, e Bonfiglio ci mise qualche giorno ad avere l'intuizione archeologica che gli consentì di risolvere il problema, con i paesani che lo assillavano e lo prendevano cordialmente in giro, tanto loro a Palermo ci andavano in corriera, mica in treno. La soluzione al quesito erano, alla fine, i cessi chiusi a doppia mandata – quelli pure affioramenti ipogei, ma indisponibili agli amplessi. Quei quattro metri cubi di cemento a due passi dalla pensilina erano l'unica costruzione, e siccome pulirli costava le FS li avevano chiusi alla metà degli anni Novanta. Quando avevano automatizzato l'annunciatrice, i cessi erano l'unico posto dove poter mettere quella specie di computer che aveva solo il compito di comporre e fare partire il messaggio, controllato da remoto.
Così, visto che non stava scritto da nessuna parte né come fare né dove farlo, Bonfiglio si sbizzarrì, e ci mise il messaggio che aveva sempre sognato, finalmente composto nei giorni che gli ci erano voluti a trovare la centralina.
Ai paesani in trànsito annunciàmo
che il regionàle da Palermo Centràle
in questa tonnàra sta per sostàre
e per trabbìa proseguirà.
Al messaggio seguivano le campane della chiesa che battevano l'ora, quindi il fischio del treno. Il paese accolse quest'opera inutile con il godimento ironico con cui si celebrano i prodotti dell'ozio, il tecnico degli impianti acustici fu subito “il musicista”.
Si dimise quando la stazione fu dismessa. Oggi compone partiture per sintetizzatori vocali ma sul biglietto da visita c'è scritto “Giacomo Bonfiglio, battezzato musicista”.
"Un mio vicino parcheggia sempre il suo pick-up Chevrolet del 1967 ammaccato e arrugginito sulla strada di casa mia. E per questo lo ringrazio: il fascino sgangherato della sua macchina mi aiuta a tornare con i piedi per terra quando il perfezionismo mi toglie l'anima, o quando certi oggetti luccicanti e patinati cercano di ipnotizzarmi per farmi credere che solo loro possono essere considerati attraenti. Nella tua vita ci sono icone del genere, Vergine? Oggetti strani, ingombranti e anomali, ma a modo loro sublimi? Penso che nei prossimi giorni ricaverai molti più vantaggi del solito dal loro influsso."
Oggi parliamo del mio cervello. Un oggetto ammaccato, arrugginito e parcheggiato. Sicuramente strano. Spesso ingombrante. E sarebbe falsa modestia dire che non lo trovi a suo modo sublime. In una delle sei versioni del finale dell'incipit [-> qui], immaginavo un caffè versato direttamente sulle meningi, uno shampoo bollente a cranio scoperchiato. Metaforicamente, mi pare di averne assai bisogno.
Il mio cervello è lento e dorme tantissimo. È prevalentemente dedito ad attività di tipo onanistico e non soffre - ma per insensibilità, mica per benessere. Un cartesiano troverebbe la cosa problematica assai, vedendosi come indistinto dal proprio cervello. Io, che tutto sommato riconosco al corpo una certa rilevanza, potrei cavarmela meglio. Il fatto è che anche il mio corpo è prevalentemente dedito ad attività di tipo onanistico e, per sovrappiù, è anche causa della sua sofferenza, ottenuta mediante irripetibili secrezioni e irritazioni.
La cosa mi crea non poche difficoltà nel riuscire a tenere i piedi per terra, come potete facilmente immaginare. Tutto è fonte di richiamo, tutto è ipnotico. È tutto un "hmm, interessante!", "ah, però", "sì, figo". Non è facile vivere con un cervello completamente scriteriato. Si veda, ad esempio, il mio rapporto con questo stesso concorso.
1. Leggo del concorso, partecipo!, scrivo un incipit.
2. Va come va, si passa (venti giorni di ansia), poi casini e ritardi vari, sfavamento, la cosa finisce un po' nel dimenticatoio.
3. Gli organizzatori rettificano, scrivo freneticamente un racconto che praticamente non mi appartiene più (esteticamente, non giuridicamente) e da oggi riparte l'ansia dei voti, delle valutazioni, dei giudizi etc... la girandola delle incertezze (alla mostra delle banalità, perché, francamente, 6 testi su 21 valgono qualcosa, il resto è aria fritta).
L'aspetto patologico è il rivolgimento senza senso dell'ordine delle priorità. In fondo, medito, se uno finisce con lo scrivere un racconto nonsensical è perché si trova in una condizione di nonsense. Mi verrebbero in mente svariati altri sinonimi per descrivere questa cosa: limbo, impasse, ostacolo, smarrimento, confusione, perdita di orientamento... li scarto tutti. Il mio sublime cervello non riesce a trovare la chiave di volta. Non è un problema di fine, è un problema di struttura. Converrete, penso, che è un po' dura darsi una struttura quando a essere destrutturato è proprio l'organo che dovrebbe dare qualche struttura. Finisco con il subire completamente ogni aspetto della realtà che si presentae che, essendo più strutturato, si impone.
Insomma, è un gran casino. E, a dispetto della vulgata, il casino non è neppure particolarmente queer, essendo il queer metodologicamente perfetto. (Oggi poi ho scoperto che Eve Kosofsky Sedgwik è morta domenica, e non riesco manco a elaborare il lutto)
Proposte? Sono tutt'orecchi.
Oggetto: | [networkgiovanipisa] Lunga parentesi di sfogo |
---|---|
Data: | Thu, 09 Apr 2009 23:40:12 +0200 |
Da: | si.culo |
Rispondi-a: | networkgiovanipisa@googlegroups.com |
A: | networkgiovanipisa@googlegroups.com |